Oggi il Movimento 5 Stelle prenderà parte alla fiaccolata dedicata ad Aleksej Naval’nyj, noto attivista, blogger, tra i più tenaci oppositori di Putin. Avevamo chiesto giustizia nei suoi confronti già nel 2020, quando era stato ricoverato in gravi condizioni per l’avvelenamento tramite l’agente nervino Novichok. Ancora più forte risuona la nostra richiesta di giustizia ora che è deceduto in una sperduta colonia penale russa, in circostanze oscure, mentre era in attesa dell’ennesimo processo. Non potremmo condividere tutte le sue posizioni politiche, in particolare quelle ispirate a un nazionalismo radicale, ma ci inchiniamo di fronte alle sue battaglie per la libertà di opinione, alle sue campagne contro la corruzione, al suo coraggio nella sfida contro il regime putiniano.
Oggi il Movimento 5 Stelle ricorda pure che siamo alla vigilia di un appuntamento importante. Già per domani è attesa la pronuncia della High Court del Regno Unito sull’appello che Julian Assange, fondatore di Wikileaks, ha promosso contro l’estradizione negli Stati Uniti. Ad Assange viene contestato di avere violato l’Espionage Act, una legge del 1917, pubblicando oltre 700 mila documenti segreti del governo americano. Per questa ragione rischia 175 anni in una prigione di massima sicurezza.
È la prima volta che un giornalista che rende pubbliche informazioni anche scomode su crimini e torture viene posto sullo stesso piano di una qualsiasi spia, che tradisce il proprio paese passando documenti al nemico. Su questo punto, l’atteggiamento del Governo americano non ha registrato mutamenti, passando dall’amministrazione Trump a quella di Biden.
Sono due casi completamente diversi. Nel caso di Assange non si registrano avvelenamenti di sorta, a tacer di altre differenze. Spero davvero che qualche spirito debole, amante delle più sciocche polemiche, non ci imputi di volerli mettere sullo stesso piano. E preciso che non ci sfuggono affatto le differenze tra un sistema democratico e un sistema autocratico.
A voler essere ancora più chiari, non vi sono ragioni per ritenere che ad Assange, in caso di estradizione, non verranno applicate tutte le garanzie della “Rule of Law” e del “due process”. Insomma, nel caso di Assange parliamo degli Stati Uniti, un Paese nostro “amico”, fondato su regole democratiche, che peraltro vanta la tradizione di affidare alla giuria popolare il verdetto finale, nella convinzione che questo coinvolgimento popolare sia la migliore garanzia per rafforzare la tenuta democratica contro possibili arbitrii e soprusi. Ma noi, ciononostante, ci auguriamo che l’estradizione di Assange non sia concessa. Condividiamo con tutto il cuore questa esortazione, espressa – tra gli altri – dal Consiglio d’Europa nel 2020 e, da ultimo, dalla relatrice speciale Onu sulla tortura, Alice Jill Edwards. Non perché siamo nemici degli Stati Uniti. Non perché riteniamo la loro democrazia di scarsa qualità. È un discorso, questo, che non intendiamo neppure accennare, avendo già così tanti problemi alle prese con le patologie della nostra democrazia.
Il nostro augurio è un inno alla libertà di stampa. Un inno che non deve conoscere né limitazioni né confini. Un inno che vale ovunque.
Un inno per noi sacro, che ho difeso con forza anche con il principe Mohammad bin Salman, al quale, quando ero Presidente del Consiglio, durante il G20 in Argentina, nel 2018, rivendicai la necessità di un giusto processo, con osservatori internazionali, per accertare le responsabilità per il truce assassinio del giornalista Jamal Kashoggi.
Questo inno è sacro perché, a ogni latitudine del mondo, i politici dimostrano allergia per chi spiffera i segreti del potere, soprattutto se inconfessabili.
È un inno che ci dovrebbe unire tutti. Ha osservato l’avvocato americano Barry Pollack: “I giornalisti di tutto il mondo dovrebbero essere molto preoccupati da queste accuse penali senza precedenti, perché minano il diritto della stampa a proteggere le proprie fonti confidenziali”.
Questo è il principio che ha sempre ispirato un grande costituzionalista americano: il giudice Hugo Black, il quale ammoniva “dobbiamo proteggere le idee che detestiamo, altrimenti presto o tardi ci proibiranno di esprimere quelle che amiamo”. E a questo proposito, ricordo che Hugo Black è stato il giudice redattore della storica sentenza con cui la Corte Suprema americana, il 30 giugno 1971, autorizzò il New York Times e il Washington Post a riprendere le pubblicazioni sui “Pentagon Papers”, documenti coperti dal segreto di stato, che rivelarono le falsità e la disastrosa gestione della guerra del Vietnam da parte del Governo americano. Il primo emendamento della Costituzione americana, insegnava Hugo Black, implicava che la stampa “deve servire ai governati non ai governanti. Il potere del governo di censurare la stampa è stato abolito perché la stampa rimanesse per sempre libera di censurare il governo”.
Giuseppe Conte